Un viaggio tra alimenti e sapori perduti

La sapienza alimentare italiana è immensa. Sapienza millenaria nel creare alimenti straordinari dall’intero mondo vegetale e animale e nell’inventare poi modi di cucinarli che non hanno eguali per armonia ed equilibrio di sapori. La cucina italiana eredita in blocco quella ricchissima della antica Roma, si complica e si semplifica con alimenti e modi di cucina germanici, trova la sua identità precipua dal matrimonio felice della cucina rurale medioevale, potente per la creazione di alimenti eccezionali come il formaggio parmigiano, il gorgonzola, l’infinita schiera degli insaccati cotti e crudi, la pasta ripiena di ogni foggia e bizzarria di farcia, con quella teatrale e fantasmagorica delle corti rinascimentali, dove il salato si mescola e scherza con il dolce, l’aspro con il tenue, le carni giocano con i sapori del pesce e la frutta affoga i suoi umori già zuccherini nello zucchero e nella senape. In Italia non si è mai mangiato tanto per mangiare, cioè per nutrirsi, quanto per stupirsi di quanto si possa godere a tavola non solo col palato, ma con gli occhi e col naso.

E quello che più colpisce è che il gusto tipicamente aristocratico per una tavola ricca di inventiva e di varietà di sapori si è trasferita paro paro negli ambiti popolari e rurali, dove un’infinita immaginazione ha saputo rimediare alla ristrettezza dei mezzi e delle risorse alimentari, generando anche con le più umili materie prime cibi e ricette di eccezionale originalità e bontà. Per secoli, in ogni angolo d’Italia, in ogni ceto sociale, dall’aristocrazia al contado, ma passando anche per la ricca borghesia cittadina come per i più modesti ceti popolari che hanno vissuto di lavoro manuale, la passione per il cibo non è stata tanto o solo quella di divorarlo, quanto quella di creare sempre nuove combinazioni di sapori e nuovi modi per trasformare e conservare le materie prime.

Oggi purtroppo assistiamo ad uno spaventoso impoverimento di questa grande tradizione a causa della concomitanza di una serie di fattori sia culturali che economici che di ordinaria vita famigliare. Pesa in primo luogo, la mancanza di tempo e la necessità, quindi, nelle case di un’alimentazione veloce e funzionale, fatta prevalentemente di cibi già preconfezionati o comunque da cuocere in pochi minuti (la classica pasta al pomodoro e bistecca). Pesano le mode alimentari che sono proprie del villaggio globale nel quale viviamo e che impongono stili alimentari uniformi e banali anche quando propongono piatti e alimenti che vorrebbero essere raffinati e speciali, ma che sono per lo più un assurdo travaso di alimenti pregiati (caviale, tartufi, carni speciali, etc.) in ricette che hanno perso la loro originaria identità.

Parlare oggi di alimenti e sapori perduti significa dunque mettere l’accento su di una grande tradizione che va spegnendosi per una molteplicità di fattori oggettivi e materiali (il modo di fare fuoco nelle case, il tempo che si riserva allo stare in casa, tenuto conto degli orari di lavoro) e a causa di una serie di tendenze culturali che trasformano – questo su scala mondiale e, soprattutto, nelle metropoli – il cibo e la cucina in un caleidoscopio di ricette di ogni tipo, quasi sempre snaturate e semplificate, in una grande macedonia dove pizze, spaghetti al pomodoro, panini alla polpetta (hamburgher), sushi, chili, churrascos, risotti gialli, aragoste alla catalana, risotti al nero di seppia, costate alle griglia, prosciutto e melone, si mescolano in un caos di sapori dove ogni rigore e unità stilistica è andata perduta e con essa qualsiasi cultura e consapevolezza di quell’arte minore che è la cucina.

Devastante, infine, è stata la mortifera ideologia dell’alimentazione sana e corretta, ossia quella uscita dalle menti di nutrizionisti, dietologi, giornalisti di divulgazione para scientifica, affiancati da tanta gente in odio con se stessa e col mondo, che, con l’erba e la soia, immagina di purgare le proprie vergogne e magari aspirare alla vita eterna. In solide case borghesi, presso famiglie di rocciosa tradizione proletaria, fra Italiani che discendono da generazioni e generazioni di sanissimi e felicissimi mangiatori di salumi, carni e formaggi, il dubbio è stato portato e quindi tutti a ripetere litanie contro il colesterolo, contro i fritti tanto dannosi, contro il cuore stesso di un’esperienza alimentare millenaria basata sul latte, sul burro, sul formaggio e la carne, in virtù di una falsa, e in ogni caso meschina, promessa di cinque minuti di più di vita. E’ oggi impossibile dire anche con relativa approssimazione quanti e quali frutti, quante e quali varietà di erbe e cereali, quante e quali razze bovine, ovine, caprine, suine, per non parlare di volatili di bassa corte, che un tempo erano abitualmente coltivati o allevati ed ora sono definitivamente scomparsi.

Allo stesso modo, ma fortunatamente in maniera meno definitiva, è enorme il numero di salumi, formaggi, conserve, salse, modi di panificazione, tipi di paste alimentari, dolci che di fatto sono usciti dal abituale consumo famigliare e che si acquistano con estrema difficoltà presso un artigiano, spesso noto solo a pochissimi.