Schiave tra vudù e debito

Lavorano di giorno e di notte. Sotto il sole o con la pioggia, al freddo pungente dell’inverno o alla calura ardente dell’estate. Sulle strade consolari vicine alle grandi città del centro-nord o, più a sud, sul lungomare del Casertano, sono ormai una presenza familiare: nere e slanciate, le prostitute nigeriane aspettano il cliente di turno, fermano le macchine con gesti accattivanti, ostentano un piglio grintoso e atteggiamenti aggressivi. Ma a tenerle inchiodate al marciapiede non è una libera scelta: malgrado le apparenze, gran parte di loro sono rimaste vittime di un meccanismo perverso. Tutto ha inizio in Nigeria. O, più precisamente, in una metropoli polverosa non lontana dal delta del Niger e dalle acque ricche di petrolio del golfo di Guinea: Benin City, capitale dell’Edo State. La stragrande maggioranza delle donne nere che negli ultimi anni sono finite ad affollare le nostre strade vengono da lì. Molte di loro sognavano un lavoro normale in Europa e si sono sobbarcate un viaggio lungo e faticoso, ai limiti della sopportazione. Tutte hanno contratto un debito per pagare le spese del trasferimento; e di questo debito sono diventate schiave, costrette a vendere il proprio corpo sette giorni su sette, con brevi e sporadiche soluzioni di continuità.

Il contratto d’espatrio e il baba-loa.
Nikla (è un nome di fantasia), ventisette anni appena compiuti e un anno e mezzo di lavoro in strada in una città del nord Italia, ricorda bene il giorno in cui è caduta nella trappola. «Facevo una vita miserabile – racconta -. Ho visto diverse donne partire e tornare ricche, costruirsi belle case, aprire attività in proprio. E ho deciso che l’Europa doveva essere il mio orizzonte». Nikla ricorda il giorno in cui ha firmato la sua condanna alla schiavitù. «Mi hanno portato da un notaio e mi hanno fatto sottoscrivere un foglio con cui assicuravo che avrei restituito l’equivalente di 20mila euro. Era una somma enorme, tanto grande che non riuscivo neanche a calcolarla».

Il debito è la morsa che schiaccia le donne, l’arma di ricatto che le lascia senza scelta. I contratti prevedono che la firmataria dovrà accettare qualsiasi occupazione le sarà proposta. In caso di inadempienza, i creditori potranno rivalersi sulla famiglia, che normalmente impegna le poche ricchezze di cui dispone: una casa, un orto, un piccolo negozio.

Oltre al debito, tuttavia, un’altra arma, più potente e temuta, viene messa in campo dalle organizzazioni che gestiscono il racket. Dopo la firma di fronte al notaio, le candidate all’espatrio vengono portate dal baba-loa, figura religiosa tradizionale molto diffusa e rispettata, soprattutto nelle zone non musulmane della Nigeria meridionale. Solo nello stato di Edo ci sono infatti ben 5000 baba-loa regolarmente iscritti a un albo professionale di categoria, i cui compiti sono legati soprattutto al bisogno di coesione comunitaria, mediazione nei conflitti sociali e familiari, nonché virtù di carattere terapeutico. Il baba-loa «benedice» la partenza delle donne, sottoponendole a un rito vudù ben codificato: prende alcuni elementi intimi della candidate alla partenza (peli pubici, unghie dei piedi, un assorbente sporco di sangue) e li mescola in un sacchetto pieno di polveri magiche. Come una corda stretta intorno al collo, il rito vudù contribuirà a rendere docili le ragazze: terrorizzate dal fatto che alcune parti del loro corpo sono nelle mani dello stregone, si sentiranno legate a doppio filo all’impegno preso.

Forti di questo duplice vincolo, le organizzazioni criminose sanno di avere il coltello dalla parte del manico. Una volta selezionate e spesso illuse le donne con la promessa di un falso lavoro, organizzano il loro passaggio in Europa. Un viaggio che può avvenire secondo tragitti variabili: a volte si parte in aereo, con visto turistico o documenti falsi; più frequentemente via terra, attraverso il Sahara e lo stretto di Gibilterra. Una traversata lunga e difficile, che Nikla ricorda come un’odissea. «Ho attraversato il deserto con una jeep, insieme a sette compagne. A un certo punto abbiamo perso la pista e abbiamo cominciato a vagare tra le dune. Quando siamo usciti da quell’incubo, cinque di noi erano morte». Arrivate in Algeria, sono poi passate in Marocco, dove hanno aspettato tre mesi prima di imbarcarsi per la Spagna. In tutto, ricorda Nikla, «c’è voluto un anno per raggiungere l’Italia». Appena arrivata a Torino (città di transito di gran parte delle nigeriane che giungono nel nostro paese) è stata presa in carico da una donna, che le ha illustrato il lavoro che avrebbe dovuto svolgere. «Ho provato a rifiutare, ma la sera stessa sono venuti quattro uomini, mi hanno stuprata e picchiata». Il giorno dopo, Nikla era in strada.

Una dinamica perversa ma rigorosa.
L’organizzazione che gestisce il traffico ha una strutturazione precisa e ben articolata. A differenza di quanto avviene per la prostituzione proveniente dall’Europa dell’est, gestita da piccoli gruppi criminali quasi a conduzione familiare, quella nigeriana è in mano a una vera e propria mafia, con ramificazioni complesse sia nel paese africano che in Europa. Ai reclutatori che passano a setaccio Benin City e il suo hinterland e organizzando i trasferimenti, corrisponde in Italia una struttura preposta all’«accoglienza» e all’istradamento alla prostituzione. Chiave di volta di questa struttura è la maman, spesso un’ex prostituta, che si presenta come una figura materna. Ogni maman accoglie nella propria casa sette-otto ragazze, gestisce i loro guadagni, si occupa del risarcimento del debito e ricorda loro, qualora non volessero piegarsi alle sue condizioni, il doppio vincolo che hanno con l’organizzazione. La maman è una figura ambigua: passata per l’esperienza che impone alle sue sottoposte, si presenta come una protettrice e una benefattrice; è la leader più anziana di cui ogni gruppo ha bisogno.

Perché la prostituzione nigeriana si esercita in gruppo: le ragazze dormono sotto lo stesso tetto, lavorano negli stessi luoghi, mangiano insieme. Costituiscono insomma piccole comunità, dotate di regole, dinamiche interne, contraddizioni e conflitti. Una dimensione collettiva che contribuisce a creare un senso di appartenenza, alleviando in qualche modo le difficoltà di un’esistenza forzata. «Al di là delle forme di coercizione esercitate dalla maman, la vita di gruppo rappresenta uno strumento identitario», afferma il sociologo Francesco Carchedi, che al fenomeno della prostituzione migrante ha dedicato diversi studi. «Si tratta di un sistema in cui è peraltro possibile identificare un vero e proprio processo di promozione sociale». Carchedi snocciola i suoi calcoli: «Per estinguere il debito occorrono in media tra i due e i tre anni di lavoro continuativo, considerate anche le spese che vengono detratte per il vitto, l’alloggio e l’affitto del joint, la porzione di strada su cui battere. Coloro che giungono al termine del percorso, senza essere rimpatriate coattivamente o senza innescare i meccanismi di fuoriuscita dal circuito previsti dalle leggi italiane, a volte decidono di continuare a lavorare nel settore del sesso a pagamento. In questo caso possono scegliere due strade: esercitare in proprio o entrare a far parte dell’organizzazione e diventare maman, dopo un periodo di apprendistato in cui aiutano la capo-gruppo nelle mansioni quotidiane». La sfruttata può quindi diventare sfruttatrice e decidere di perpetuare il sistema, che appare così retto da una sua logica intrinseca, perversa ma rigorosa.

Secondo questo schema, le donne accettano di vivere in una situazione para-schiavistica tre o quattro anni, per poi cominciare quel processo di accumulazione del capitale che rappresenta il senso ultimo del loro progetto migratorio. Si tratta di una scelta volontaria o di una condizione imposta? Alcuni operatori del settore sostengono che il grado di consapevolezza alla partenza è oggi più alto rispetto alla fine degli anni `90, quando le donne venivano ingannate con la prospettiva di occupazioni normali. «Gran parte delle ragazze sanno ormai cosa vengono a fare – racconta Teresa Albano, responsabile anti-trafficking della sezione italiana dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) -. Poi magari si scontrano con situazioni peggiori di quelle che si erano immaginate e innescano percorsi di fuoriuscita».

E in effetti, da quando è stata attivato l’articolo 18 della legge sull’immigrazione, con la possibilità di concedere un permesso di soggiorno alle vittime di tratta e sfruttamento, le nigeriane sono di gran lunga il gruppo che ne ha maggiormente usufruito. Un elemento che sembra smentire l’idea di un sistema inscalfibile, in cui il doppio vincolo del vudù e del debito provvede a creare una cappa di omertà impossibile da abbattere. Alcuni operatori parlano ormai apertamente di una crisi del modello nigeriano, testimoniata anche dal fatto che negli ultimi tempi diverse donne hanno abbandonato le rispettive maman e creato mini-gruppi di prostituzione auto-gestiti. Ma Nikla, che ha denunciato la sua sfruttatrice e ora ha un lavoro regolare, non è d’accordo: «Si tratta di casi isolati. Oggi le organizzazioni sono più forti che mai».